
Open your third eye with Paul Robertson
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Tra i più talentuosi visual artists ad aver scelto la pixel art come mezzo espressivo spicca sicuramente Paul Robertson.
Australiano, spirito libero, forse un po’ hippie e naif, si distingue per il tocco psichedelico che permea tutte le sue gif: colori da trip, occhi post-allucinogeni e fanfare che non hanno nulla da invidiare alla Parade di Paprika, di quell’altro genio un po’ alieno che è Satoshi Kon.
Ricorrenti sono dei personaggi nelle gif animate e nelle illustrazioni gigantesche di Robertson, spesso characters di videogiochi o cartoni animati molto pop in occidente, come nel caso di Adventure Time: Hey Ice King, Why’d You Steal Our Garbage? o Fight Fighters, gif animata creata ad hoc per Gravity Falls.
Tutte le illustrazioni e le animazioni sono ovviamente in pixel art, motivo per cui le trattiamo in questa sede. Si nota però come la finezza delle linee e l’uso di un cell-shading con colori fluorescenti e molto poco pertinenti alla nostra realtà, celino quasi i singoli pixel, dosati con una maestria davvero unica.
Non a caso Paul Robertson per chi ne segue il lavoro da anni, non è certo uno sconosciuto.

Coscienza Superiore
Che si tratti di assemblaggi di personaggi noti o di original characters, è piuttosto facile notare una ricorrenza nel lavoro di Robertson. Una caratteristica che rende, assieme all’uso comunque ben personalizzato di colori e luci, immediatamente riconoscibile la sua produzione anche in assenza di firma.
Si tratta dei continui richiami a uno stato di elevazione spirituale di cui costella i suoi lavori, con elementi tipici della galassia, alla meditazione. Tutti elementi per raggiungere stati di coscienza superiore.
Elementi mistici e cabalistici come numeri, simboli particolari e espressioni o gesti manieristici costellano l’opera dell’artista. Spessi inseriti in composizioni piramidali ascendenti. Come se si trattasse di un rimosso subconscio, tramite l’estrema facilità di comunicazione dei personaggi pop come Rick & Morty, questi gesti vengono inclusi e racchiudi forse inconsapevolmente, come il ritrattista rinascimentale che pone sempre qualche caratteristica del suo volto in quelli altrui.


Terzi occhi in mezzo alla fronte, piramidi e numeri mistici. Incredibile quanto simbolismo si incontri in pochi centimetri di immagine.
Robertson è poliedrico, e se c’è una cosa in cui pare essere costante questa è la testardaggine (bonaria) con cui si imbarca in progetti iper-dettagliati, ambiziosi e come se non bastasse, lunghi. Non solo animazioni in loop in cui perdere lo sguardo come nei tabelloni di “Dov’è Wally?”, l’artista ha anche creato cortometraggi e reels da non credere, alcune diventate virali come la sua reinterpretazione della sigla d’apertura dei Simpsons.
Utilizzando uno stile mooolto illustrativo/Tumblr, questa dimensione superiore in cui Robertson ci trasporta è forse una sorta di meta-linguaggio, con cui parla del suo stesso modo di fare arte, del suo stesso stile. Parlare con cubi e pixel del dissolversi metaforico dell’uomo in piccole parti.
I pixel sono quindi non solo l’unità prima, il modulo del disegno, ma il modulo stesso delle creature viventi che costellano questi paesaggi mentali super colorati. E non pare esserci una via di fuga. Le fanfare disordinate mostrano espressioni spaesate, visi corrucciati e perplessi; i ragazzi seduti sconsolati su un burrone non possono far altro che osservare impotenti la propria autodistruzione. Sotto i loro occhi, brandelli di carne pixelata, senza nemmeno quindii bisogno di un secondo livelli di pixelatura, la censura, si perdono in un vortice di cui non potremo e non potranno mai vedere il fondo. Perché è solo un loop infinito, una ripetizione infernale digitale in cui sono intrappolati.
Cifra stilistica di Robertson è quindi il sovraffollamento, questo horror vacui di figure un po’ cartoonish, che piuttosto inconsapevolmente abitano e riempono fino al collasso mondi digitali. Veri e propri cyberspazi a metà tra il nostro e un altro mondo.
In alcune illustrazioni si può notare la mancanza di cielo, di atmosfera. A sostituirli, un insieme di dati che imita una calotta reale per chi ci vive dentro, ma visibile alle creature fuori. Noi. Una sorta di arena digitale di cui si intravede qualche informazione.

